Ai primi accenni dello scoppio di una malattia epidemiologi, operatori sanitari, decisori politici e scienziati si rivolgono a sofisticati modelli di previsione per determinare in che modo la malattia si sta diffondendo e che cosa dovrebbe esser fatto per minimizzare il rischio di contagio. Una ricerca in collaborazione tra il Politecnico di Torino e la New York University Tandon School of Engineering sta rivoluzionando il processo di modellazione tradizionale, ottenendo previsioni più semplici da calcolare e più efficaci all’interno di un mondo iperconnesso come quello in cui viviamo.
Tutti i modelli predittivi correlano il movimento di una malattia alla popolazione nel corso del tempo, ma le simulazioni odierne non sempre tengono conto in maniera efficace di un aspetto ovvio: la mobilità e l’attività variano tra le persone e queste variazioni hanno un impatto sulla probabilità di contrarre o diffondere la malattia.
Un nuovo paradigma è stato esposto in un paper pubblicato sulla prestigiosa rivista Physical Review Letters da Alessandro Rizzo, professore associato del Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico e visiting professor alla New York University Tandon School of Engineering, Lorenzo Zino, dottorando del Politecnico in matematica pura e applicata, e Maurizio Porfiri, professore di Ingegneria meccanica e aerospaziale alla New York University Tandon School of Engineering.
I ricercatori hanno verificato che alcune persone sono molto attive, altre meno, e nei risultati del loro modello spiegano come tali differenze possono influenzare la diffusione della malattia. Il loro approccio permette di individuare differenti sfumature di malattie, da un virus aereo altamente contagioso come l’influenza, che si espande velocemente tra persone con un’alta mobilità ma viene limitato da chi rimane in isolamento, a virus come l’HIV, con un lungo periodo di latenza e una lenta trasmissione.
“Il modo in cui ci muoviamo riflette il modo in cui contraiamo una malattia”, afferma Porfiri, che continua: “Abbiamo pensato di cambiare il punto di vista da cui si affronta la simulazione, perché è difficile capire come un piccolo focolaio possa evolvere in un’epidemia senza capire come i diversi livelli di attività delle persone aiutino la diffusione della malattia”.
Parecchi modelli tradizionali presuppongono un’omogeneità all’interno della comunità: “È come se le persone malate si trovassero tutte in un unico ambiente, connesse con un numero finito di persone e questo non è realistico”, afferma Rizzo. “Alcune persone hanno molte più connessioni di altre ed è possibile mettere in relazione la diffusione della malattia a quella di queste connessioni”.
Porfiri e Rizzo hanno spiegato che le simulazioni tradizionali usano il cosiddetto approccio “tempo discreto/attività continua”, il quale in genere si presta bene all’esecuzione di simulazioni estese ma non permette un trattamento matematico del problema. I ricercatori, invece, utilizzano un sistema semplice di equazioni differenziali accoppiate, che permettono la manipolazione dei fattori che possono influenzare la propagazione della malattia.
La pubblicazione su Physical Review Letters è il primo risultato di una ricerca recentemente finanziata con un budget di 375 mila dollari per tre anni dalla National Science Foundation per studiare l’evoluzione del contagio, le dinamiche della malattia infettiva e le reti attraverso il quale essa si veicola. La ricerca è stata co-finanziata anche dalla U.S. Army Research Office (ARO) e dalla Compagnia di San Paolo.
Il team ha sviluppato uno dei pochi modelli per lo studio della diffusione epidemica utilizzando l’eterogeneità dei livelli di attività dei soggetti come un fattore determinante per la propagazione dell’infezione. Negli esperimenti per testare il modello, i ricercatori hanno descritto con successo l’evolversi di un’epidemia di influenza in un campus universitario e la diffusione di un trend topic su Twitter, particolarità che rende la ricerca fortemente multidisciplinare, in quanto i fenomeni di diffusione sui social media obbediscono a meccanismi analoghi a quelli della propagazione epidemica.
“Avremo infinite possibilità di prevedere l’impatto degli interventi che si possono attuare in caso di epidemia” spiega Porfiri, “Ad esempio, potremo capire come vaccini, quarantene e altri parametri influenzano il contagio. Alcune malattie si propagano velocemente, mentre altre vengono debellate immediatamente. Il nostro approccio permette l’analisi del perché e del come ciò possa accadere”.
Nel futuro, i ricercatori si aspettano che questo modello possa aiutare gli operatori del settore ad affrontare un’epidemia, incluse l’attuazione di strategie di vaccinazione, la valutazione di rischi e benefici indotti dai divieti di viaggio e la misurazione dell’efficacia delle campagne di prevenzione delle malattie.