Un’occhiata a frutta e verdura esposte sulla bancarella di un mercato è sufficiente a capire che l’agricoltura è finora riuscita nell’intento di fornire cibo in quantità abbondante e a prezzi contenuti. Questo successo è però associato a un rovescio della medaglia, meno percepibile, ossia l’impatto sulle acque di fiumi, mari e falde acquifere dei fertilizzanti impiegati. Le acque che ci circondano spesso presentano elevati livelli di contaminazione da azoto, sostanza che costituisce il componente principale dei fertilizzanti e che, se presente in quantità eccessive, rappresenta un pericolo sia per gli organismi acquatici sia per il consumo da parte dell’uomo. Fortunatamente la rete fluviale è in grado di limitare in parte questo effetto negativo grazie a processi naturali di autodepurazione che, se meglio compresi, potrebbero essere ulteriormente stimolati per migliorare la qualità delle acque. Ma è possibile prevedere in che quantità un corso d’acqua riesca a depurarsi in maniera autonoma? A rispondere è lo studio pubblicato su Science di cui è coautore Fulvio Boano, Professore del Dipartimento di Ingegneria dell'Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture del Politecnico di Torino che ha individuato il limite massimo di azoto che un corso d’acqua può depurare naturalmente.
Si tratta di un processo che è regolato dalla turbolenza dell’acqua: i moti vorticosi delle acque trasportano l’azoto disciolto verso i fondali e i sedimenti, favorendo il processo di purificazione. Qui infatti sia i microrganismi presenti nei sedimenti che le alghe sui fondali assorbono la sostanza per sfruttarla nel loro normale ciclo di vita. Messo in correlazione con le turbolenze presenti lungo i corsi d’acqua si crea una soluzione di purificazione ad energia zero: non c’è infatti bisogno di un intervento esterno per favorire il processo.
La ricerca ha stabilito il tetto massimo di purificazione autonoma. Il limite è stato calcolato attraverso modelli matematici: grazie a una descrizione teorica dei fenomeni fisici coinvolti è stato individuato un limite fisico che dipende da diversi fattori, tra cui primeggiano le caratteristiche del fiume come la profondità e la forma dell’alveo, dalle quali dipende l’intensità della turbolenza acquatica, motore del processo.
“Si tratta di un dato molto importante, che, se tenuto in considerazione, può aiutare a prendere decisioni corrette sulla gestione dei corsi d’acqua“, spiega Fulvio Boano, co-autore dello studio. “Conoscendo i fattori che limitano la capacità massima di autodepurazione si può capire come intervenire su un fiume per mantenerla o perfino aumentarla, riducendo così l’inquinamento in modo sostenibile. In futuro sarà infatti sempre più importante sfruttare al meglio i processi naturali, che non richiedono l’impiego di energia, per ridurre i nostri consumi energetici e limitare il ricorso a fonti non rinnovabili”.